Autolesionismo nel digitale

Introduzione

Ad oggi, sui social network, ci sono migliaia di profili contenenti immagini di adolescenti autolesionisti, su YouTube ci sono migliaia di video e nel web si trovano blog, comunità, gruppi chiusi e rifugi virtuali che accolgono, rinforzano o tutelano questi adolescenti. Dalla condivisione di immagini sul web e sui social, si sta passando ora allo scambio di questo materiale anche all’interno delle chat di gruppo: si creano gruppi WhatsApp, in cui i ragazzi si sentono liberi di mostrarsi e condividere le proprie condotte autolesive attraverso immagini e foto, un’emozione, un dolore, una sfida, un farlo insieme e pubblicarlo in una chat di gruppo.

Aspetto storico/sociologico

Secondo un’indagine della Società italiani di pediatria, il 15% degli adolescenti tra i 14 e i 18 anni in Italia, si è procurato autolesionismo per provare sollievo nell’ultimo decennio. Un dato che preoccupa, soprattutto nei giorni in cui i media parlano tanto di BluWhale, il “gioco” che gira su internet e che avrebbe portato al suicidio di centinaia di giovanissimi in tutto il mondo. Questa “moda”, nasce in America con il nome di “cutting”, ma non è l’unica pratica di autolesionismo online. Esso si è diffuso rapidamente in molte parti del mondo grazie ad internet. 

Aspetto psicologico/patologico

Tanti adolescenti spostano la propria vita direttamente sul Web e spesso si nascondono, non si vogliono far vedere, aprono dei profili finti, all’interno del quale sentono di potersi esprimere liberamente e tirar fuori ciò che normalmente tendono a reprimere, all’interno dei gruppi, dei blog, dei forum e dei social. Ci sono spazi online che fungono da contenitori di angosce adolescenziali, in cui i ragazzi condividono e comunicano il proprio disagio interiore attraverso l’utilizzo di abbreviazioni, di nomi, dei cosiddetti hashtag o #. Dopo il segno #, si nasconde tante volte un mondo sommerso di dolore e di sofferenza: #cut, #cutting, #selfharm, #autolesionismo, sono tutti esempi di tag che rimandano a contenuti specifici sul farsi del male intenzionalmente. Spesso sono accompagnati da altri hashtag che esprimono lo stato d’animo di questi ragazzi, come #depressione, #suicidio, #help, #solitudine e altri ancora. Questi luoghi virtuali, queste chat di gruppo possono rappresentare una via d’uscita, un conforto, un luogo protetto, altre volte diventano luoghi di rinforzo, di esaltazione di questi comportamenti e di emulazione. Il rapporto tra social media e autolesionismo è molto stretto e rischia di condizionare la vita dei ragazzi, soprattutto dei più giovani e di coloro che sono più vulnerabili.

Data la fragilità interna di questi ragazzi, la capacità di giudizio può essere facilmente manipolata e la realtà può essere distorta con il rischio che strumenti tecnologici e media possano amplificare in maniera drastica situazioni e vissuti già difficili. Non significa che chiunque venga a contatto con questo tipo di contenuti resti incastrato e attivi condotte autolesive ma, in situazioni di profonda fragilità e vulnerabilità, si può creare una sorta di effetto contagio, di sostegno e di normalizzazione della condotta stessa. Il processo d’identificazione con i contenuti online si concretizza attraverso l’emulazione di ciò che altri hanno già compiuto e reso pubblico grazie alla diffusione sul Web e al fatto che può essere replicato all’infinito. La spettacolarizzazione della violenza, dell’aggressività diretta verso se stessi, del dolore, racchiusa nell’atto compulsivo e automatico di catturare tutto filmandolo e diffondendolo in rete, appartiene ad una modalità ormai propria dei ragazzi, utilizzata anche solo per esibirsi o, talvolta, come modalità estrema per affermare la propria esistenza. Il messaggio che si trasmette può consistere in un invito all’imitazione e all’emulazione e, poiché tali imprese sono video-celebrate e condivise, i ragazzi sono gratificati nell’essersi conformati e omologati ad un gruppo da cui si sentono riconosciuti e accettati.

Aspetto educativo

Troppi adolescenti autolesionisti si sentono emarginati e stigmatizzati dalle famiglie, dalla scuola e dalla società che forse non è ancora in grado di accoglierli e di comprendere la sofferenza che si cela dietro il loro gesto. Hanno timore del confronto con i genitori, delle loro reazioni, di essere giudicati, criticati, attaccati e soprattutto di deluderli.

I genitori spesso non si accorgono di cosa accada sotto i loro occhi, credono a ciò che raccontano i figli, ai graffi, alle cadute, ai gatti e quant’altro produca la fantasia di questi ragazzi, spesso nascosti dietro le maniche lunghe o le file di braccialetti. Ci sono dei segnali a cui il genitore, e le persone vicine devono fare assolutamente attenzione per intervenire nella maniera più giusta ed efficace.

Anche la scuola può giocare un ruolo fondamentale e, come è successo in questo caso, accorgersi di alcuni segnali d’allarme dei ragazzi, delle condotte autolesive e delle dinamiche nel gruppo classe. Bisogna però parlarne con i ragazzi e puntare sulla PREVENZIONE, perché purtroppo si crede ancora alla favola secondo cui se si parla di autolesionismo si può spingere i ragazzi a farlo o a mettere in atto condotte emulative.

Conclusioni

Gli adolescenti sanno perfettamente cos’è l’autolesionismo e vedono immagini su immagini, dunque sarebbe veramente ora di sfondare questo tabù, di dargli il giusto spazio e di aiutare i giovani e le famiglie.